venerdì 26 dicembre 2008

Accanimento Terapeutico

La vigila di Natale è stata molto, molto brutta. Nonostante gli antidolorifici papà ha sofferto moltissimo, sia il giorno che la sera, tanto che abbiamo mangiato in fretta e furia per far andare a letto papy il prima possibile. Alle 22 avevamo rassettato casa, papà era a letto, io e Andrea addormentati sul divano con la tele accesa. Non abbiamo nemmeno aspettato mezzanotte. Mamma ha detto che papà continuava a contorcersi dai dolori, ha sofferto come un... ... ha sofferto tanto. Quando il mio ragazzo è andato a casa ho trovato mamma che piangeva :o(
Il giorno dopo mi ha detto che papà dice che con lui stiamo facendo solo accanimento terapeutico. A volte lo penso anch'io, quando vedo che non ci sono risultati, o quando vedo che soffre come in questi giorni. Mi domando perchè farlo soffrire ancora? Perchè fare su di lui tentativi come con una cavia?
Ma qual è il confine tra cure giuste e accanimento terapeutico?

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"Abbiamo fatto quello che si poteva": una frase che dice tutto senza dire nulla. Perche' quello che, ormai da tempo, non mi e' piu' chiaro, e': chi stabilisce quello che si puo', che si deve o non si deve fare? Chi traccia il confine tra quello che e' lecito fare e quello che e' eccessivo? O, ancora, tra quello che e' troppo poco e quello che dovrebbe essere il livello minimo accettabile di prestazione, di competenza, di – per usare la parola piu' abusata in questa nostra epoca di formiche operose – professionalita' e, osiamo dirlo, di coinvolgimento? L'esperienza? La letteratura medica? Le linee guida elaborate nei congressi? Il buon senso? L'etica medica?L'accanimento terapeutico e' un concetto abbastanza chiaro e fondamentale nei testi d'etica medica e forse anche di filosofia. Nell'esperienza clinica quotidiana diviene invece estremamente piu' nebuloso. Dibattersi fra una possibilita' di guarigione su un milione – la nostra ignoranza e limitatezza ancora puo' stupirsi dei miracoli – e la dignita' di una morte pietosa e' come finire tra le sabbie mobili: e spesso cio' che ci trascina verso il fondo delle stesse non e' una razionale decisione scientifico-assistenziale, ma e' la voglia di fare versus la tentazione della pigrizia, la noia o la passione, la buona o la cattiva digestione.
Questo brano è tratto dal romanzo "COSA SOGNANO I PESCI ROSSI" di Marco Venturino, un medico anestesista e quindi un clinico costretto tutti i giorni a confrontarsi con l'adeguatezza delle terapie e delle manovre più o meno invasive che devono essere intraprese, o no, su persone malate, spesso in condizioni cliniche molto instabili e gravi. Il punto di vista di chi deve prendere in tempi brevi queste decisioni, dalle quali è difficile tornare indietro e che influenzano inevitabilmente non solo il tempo della sopravvivenza, ma anche la qualità della vita e, spesso, della morte, deve essere sempre cauto, ponderato, messo in discussione e condiviso, non solo, com'è ovvio, con la persona malata, ma, se possibile, con la famiglia e tutta l'equipe terapeutica. Ecco quindi che il concetto di accanimento terapeutico, giaà così complesso nel dibattito etico-filosofico, tanto che inizia ad essere messo in discussione il termine stesso ed ormai appare più appropriato parlare di "terapie futili", deve essere calato nella realtà delle scelte quotidiane del medico che deve essere preparato ad affrontare il processo decisionale e le responsabilità che ne derivano. E' a mio parere fondamentale parlare di processo decisionale, piuttosto che di decisione, proprio tenendo presente la complessità del contesto in cui vanno individuate le varie alternative terapeutiche da proporre a quel singolo malato, se competente, in quel momento della sua storia di salute e malattia e delle sue aspettative. D'altra parte i principi etici fondamentali d'Autonomia, Beneficialità e Giustizia rimangono lo strumento imprescindibile nell'analisi del contesto tecnologico, economico, familiare, sociale, culturale e ambientale in cui la persona malata ed il medico si trovano ad interagire: se consideriamo il rapido ed apparentemente inarrestabile sviluppo della tecnologia biomedica, vediamo come dei mezzi che poco tempo fa erano eccezionali e pertanto destinati a pochi e selezionati casi, quasi sperimentali, siano oggi quotidianamente applicati (...) ancora di più dovremo riflettere su come il diverso livello culturale se non la vera e propria capacità personale dei singoli operatori di una stessa struttura, possano condizionare il successo dell'intervento terapeutico. Dobbiamo dunque rinunciare alla certezza medica che, attraverso linee guida o protocolli, riesce sempre ad individuare la terapia giusta per la malattia: dal momento in cui è così palese l'influenza del contesto sulle decisioni possibili da prendere, cade l'illusione dell'assoluta oggettività scientifica delle scelte del medico.
Un primo passo potrebbe essere quello del superamento del concetto, ancora prevalente, della terapia sempre giusta per una determinata malattia che il medico deve mettere in atto a qualunque costo, per il bene del paziente, per cui è eticamente corretto aumentare la cosiddetta compliace del paziente cercando di convincerlo in ogni caso ad aderire al piano terapeutico, sottacendone i rischi, magari esaltando i possibili risultati positivi e minimizzando gli eventuali effetti collaterali; in questo contesto, non sempre il malato è ben informato sulla diagnosi, quasi sempre è all'oscuro della prognosi e comunque è più comodo non affrontare questi argomenti direttamente con lui, ma cercare la mediazione dei famigliari; se il paziente dovesse chiedere di essere informato, espressamente e con insistenza (...) spesso si cercherà di presentare una verità edulcorata e tranquillizzante perchè, in una condizione in cui la sua conoscenza è incompleta, il medico è più libero di agire per il suo bene. Spesso il massimo dello sforzo comunicativo è dedicato a cercare di coinvolgere il malato nell'iter terapeutico, motivandolo a sentirsi coinvolto e partecipe nella lotta contro la malattia; se è facilmente intuibile quanti effetti positivi possano esserci in questo coinvolgimento, forse non andrebbero sottovalutati gli effetti negativi che questo modo di agire può avere in caso di fallimento della terapia: nella mia attività di medico palliativista, che dunque si occupa proprio di quelle persone per le quali le terapie non sono riuscite a sconfiggere la malattia e che dunque si avvicinano, piu' o meno consapevolmente, alla fase finale della loro vita, è assai frequente, specialmente nei più giovani e con maggiori responsabilità, anche genitoriali, riscontrare un lacerante senso di colpa. Molte volte, prendendo atto che le proprie condizioni psico-fisiche si stavano deteriorando e quindi era sempre più difficile continuare a svolgere il proprio ruolo sociale e/o familiare, questi malati mi hanno domandato dove loro avevano sbagliato: "i medici mi avevano detto che ce la potevo fare, che molto dipendeva dal mio impegno e dalle mie motivazioni, che non dovevo mai arrendermi ma continuare sempre a lottare e a sperare; io ce l'ho messa tutta, ho sopportato tutte le terapie che mi hanno proposto, sono andato avanti anche quando stavo cosi' male che credevo di non farcela, ma allora dove ho sbagliato? Cosa ora posso ancora fare per ricominciare a sperare di guarire? Me lo avete promesso, dovete continuare a provare, sono disposto anche a tentare terapie sperimentali..."
Questo è uno dei casi in cui l'accanimento terapeutico è richiesto dal paziente stesso ma quest'evenienza, non infrequente, che spesso vede coinvolte anche le famiglie, ha varie motivazioni: da una parte l'informazione scientifica divulgativa dei media è tesa all'esaltazione di nuovi traguardi della medicina, anche non convenzionale, presentando risultati eclatanti, quasi miracolistici, di pratiche in realtà sperimentali, di dubbia efficacia, se non già abbandonate perchè inefficaci, o addirittura dannose, dall'altra la difficoltà da parte dei sanitari curanti di comunicare, dopo aver dato speranza, che questa speranza è risultata vana e che è il momento di abbandonare le terapie attive sulla malattia. In questo caso spesso si ricorre, ad esempio, a false chemioterapie, per non togliere la speranza, con il risultato però di coltivare illusioni, di rimandare di poco il momento della comunicazione della sospensione della terapia, sperando magari di demandare questa responsabilità a qualcun altro e, in fine, creando insicurezza e sfiducia nei malati e nelle famiglie.
(...)
Dunque, come citato nella "DICHIARAZIONE DI INTENTI " del Gruppo di Pontignano del 13-14/5/04, occorre superare l'utilizzo controverso del termine "accanimento terapeutico", introducendo l'espressione "trattamenti futili" anche per indicare quelle cure che, sebbene appropriate sotto il profilo clinico in altri contesti, non dovrebbero essere proposte al paziente nella fase terminale della vita.
In conclusione, nel proporre un trattamento terapeutico, soprattutto nell'ipotesi che questo non abbia la ragionevole certezza della guarigione del malato, è imprescindibile una relazione che si svolga in ambiente di verità, con un'informazione corretta ed una comunicazione sempre aperta, per dare a quella persona, nel suo contesto sociale e familiare, tutti gli elementi necessari, perchè, valorizzandone l'autonomia, possa concordare con il curante la terapia per lui più appropriata in quel momento della sua vita non solo di malattia. (...) Non possiamo giustificare ciò che troppo spesso accade nell'attuale medicina ipertecnologica, per cui si passa in un attimo dall'accanimento all'abbandono: troppo spesso anche il medico identifica la sua frustrazione per il fallimento di una terapia causale con il non c'è più nulla da fare, come se non fosse possibile

dare qualità e valore al tempo che a quel malato resta da vivere.

Piero Morino


E dopo aver letto quest'ultima frase in rosso sono ancora più confusa di prima... sì, è giusto dare VALORE al tempo che resta... ma a quale prezzo? Con tutti questi dolori e questi lamenti quale è la qualità di questo tempo???

Ieri notte è venuto a nevicare... e stamattina mi sono svegliata presto, era buio, fuori c'era un freddo cane! La neve era bella linda, intatta... ed io sono scesa in giardino e ho fatto una sorpresa al mio amato :o) Così, quando si è affacciato da dietro al vetro del balcone, ha visto... guardate!

Poi lo ho fatto ritornare a letto, mi sono messa vicino a lui, sono andata a preparare il caffè e pane, burro e marmellata e abbiamo fatto una bella colazione assieme :o) E' stata l'ora più serena che abbia trascorso in queste "feste"...


PS. Sotto quella neve dormono le mie 4 tartarughine baby!!!!!



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